
Talvolta siamo protagonisti inconsapevoli di un film e, per riverenza e rispetto continuiamo a reggere un copione, scritto decenni prima, ma che non ci rende felici. Questo copione è l’unica realtà che conosciamo, l’unico letto su ci sembra possibile e lecito far scorrere la nostra vita. Abbiamo confini ben delineati, in qualche modo permanenti e immutabili e reputiamo che tutto sia già stato determinato (Berne, 1964). Talvolta chiamiamo questi limiti “social background”, talvolta li chiamiamo “geni”, altre volte, molto più semplicemente, parliamo di “fato” o “destino”. Nella storia non mancano interessanti spiegazioni mitologiche del nostro essere fragili e mortali, talvolta persino scolpite sulla pietra, perché ad ogni uomo sia chiara la propria impotenza e la necessità della propria resa di fronte alla propria natura. Nella storia di Abramo è già scritta la storia del popolo ebraico, nella storia di Gilgamesh o di Adamo la storia dell’umanità. Non c’è limite ai limiti dell’uomo.
Per secoli abbiamo appreso l’impotenza!
La vita dei progenitori anticipa e segna per sempre quelle dei posteri.
Arresi di fronte a ciò che deve essere, malattie fisiche e malattie mentali minano la nostra salute e ci fanno perdere interi anni di vita. Gli anni di vita persi, quelli che avremmo potuto vivere, quelli vissuti male, sono un costo personale e sociale. Sono anni che togliamo a noi stessi, alle persone che ci stanno attorno e alla società nella sua globalità.
Ma non è la situazione di per sé a determinare ciò che le persone vivono, ma il modo in cui interpretano tale situazione: i loro pensieri, le loro percezioni degli eventi influenzano le emozioni e il comportamento.
Talvolta sarebbe sufficiente solo cambiare l’angolatura del nostro sguardo per mutare l’intero quadro.
Dopo anni di instancabile lavoro alla ricerca di quelle strategie che possono aiutare in modo pratico e concreto le persone a vivere al meglio la propria esistenza, molti autori sono giunti ad affermare che la persona è chiamata a prendere consapevolezza del proprio modo di pensare e del modo di agire che ne deriva. La persona che trova un senso, che riesce a legare gli eventi della propria vita e magari a stabile una direzione, diventano protagoniste della propria guarigione.
La felicità si può cercare in luoghi e modi diversi. C’è chi cerca la felicità nello sport, nella famiglia, nell’amore, nella fede, nel lavoro. Come sottolinea Seligman avere più metodi a disposizione costituisce una ricchezza e una necessità. Sia in Berne che in Seligman c’è lo smascheramento di processi, pensieri, attribuzioni automatici. Seligman propone la costruzione di un percorso basato sulla presa di coscienza e su una liberazione autentica, che mira a dare all’essere umano il potere di costruire la propria vita.
Per Eric Berne le persone seguono inconsciamente un copione di vita determinato dall'infanzia e dalle influenze sociali che limita la crescita e la felicità ma è possibile riconoscere i modelli di pensiero automatici e i ruoli inconsapevoli per poi rinegoziare le convinzioni apprese, per costruire un’identità autentica e infine scegliere nuovi atteggiamenti e modi di relazionarsi con sé stessi e con gli altri. Per Seligman quando una persona sperimenta ripetuti fallimenti tende ad adottare un atteggiamento passivo e rinunciatario, ma può uscire da questa impotenza appresa ristrutturando il pensiero e sostituendo le convinzioni limitanti con interpretazioni più positive nonché praticando le virtù.
Entrambi propongono un percorso di consapevolezza e cambiamento che permetta alla persona di riappropriarsi della propria vita assumendo un ruolo attivo nella sua realizzazione.
In termini psicologici possiamo dire che se abbiamo appreso l’impotenza possiamo apprendere la speranza; in termini religiosi possiamo dire che solo l’uomo che conosce la Verità è un uomo libero.
Infine, in entrambi i casi, ciò che salva e guarisce è una profonda consapevolezza di sé, accompagnata da un altrettanto forte senso di responsabilità verso la propria vita.
Articolo a cura di Milena Piroddi.